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Interviste a personaggi noti

Sotto i riflettori
A volte il disagio psichico
fa comodo al potere politico
Un colloquio con il celebre
scrittore Alberto Bevilacqua:
poeta, romanziere e regista,
nonché “analista” della mente
Alberto Bevilacqua, nato a Parma il 27 giugno 1934, laureato in giurisprudenza e in astrofisica, è narratore, poeta, regista, sceneggiatore. Attira fin da giovane l’attenzione di Leonardo Sciascia, che legge il suo dattiloscritto La polvere sull’erba, scritto nel 1955 all’età di appena vent’anni; vorrebbe pubblicarlo, decide però di non farlo a causa del tema trattato: il cosiddetto Triangolo rosso, ossia le vendette incrociate fra ex partigiani ed ex repubblichini avvenute dal 1946 al 1948 nel territorio compreso fra Parma, Modena e Mantova. Il romanzo sarà dato alle stampe solo nel 2000, da Einaudi.
Il suo esordio come poeta si ha nel 1961 con la pubblicazione de L’amicizia perduta (Salvatore Sciascia), che raccoglie poesie composte in un arco di tempo che va dal 1952 al 1960 e già apparse su riviste come Paragone e La Fiera Letteraria. Scriverà poi Una città in amore (Rizzoli, 1962).
Il successo internazionale arriva con La Califfa (Rizzoli, 1964) e con Questa specie d’amore (Rizzoli, 1966, premio Campiello).

L’occasione, l’incontro, la breve intervista – E lo scorso 7 giugno, l’occasione per avvicinare lo scrittore emiliano è stata la settima edizione della rassegna del Sabato del villaggio, iniziativa culturale ormai molto sentita a Lamezia Terme, avente come tema della serata Ritratto di uno scrittore. Mi incuriosiscono alcune affermazioni personali e forti di Bevilacqua, che intendo approfondire. Egli è un uomo di cultura varia; oltre a essere laureato in giurisprudenza, lo è anche in astrofisica, coniugando quindi così i suoi interessi umanistici con quelli scientifici. Ciò che però colpisce maggiormente è la vita dell’uomo, che ha vissuto per tanto tempo con un pesante macigno sulle spalle: quello di vedere la madre spegnersi lentamente a causa della forma di depressione più sfiancante che esista, quella maniacale. Proprio questo aspetto ho voluto cogliere nella seguente intervista. Bevilacqua ha infatti analizzato a lungo le possibili cure per questa malattia e nell’intervista rilasciata dopo l’incontro culturale ha illustrato i risultati delle sue riflessioni.

Qual è stata la sua esperienza diretta con la depressione?
Mia madre ha avuto il torto di provenire da un ambiente violento, di essersi innamorata di un uomo che non l’ha sposata. Mio padre era aviatore militante nelle camicie nere, andava e veniva, ma lei è sempre stata lì ad attenderlo. Alla fine, come una diga che non regge più le acque di un fiume in piena, così la sua mente è scoppiata e la depressione l’ha colpita. Ho studiato per una vita il problema e posso dire per certo che si può uscire dalla depressione, esistono dei terapeuti preparati. Purtroppo vi sono anche, in Italia e in Europa, dei medici che fanno il possibile per non far guarire la gente, perché addormentano, mettono dei mattoni su dei mali che si possono curare anche velocemente e devastano, soprattutto, la psiche femminile.

Si preferisce lasciar soffrire i malati di depressione...
Non si vogliono guarire le malattie diffuse. È nell’interesse di certo potere politico che ci sia gente che soffre. Ancora oggi si continuano a curare questi malati con sedativi e con l’elettroshock.

Quali scienziati l’hanno più colpito fra quelli da lei conosciuti?
Ho conosciuto Carlo Rubbia, sicuramente un grande, ma, più che fisici, io ho conosciuto interventisti paralleli, cioè grandi diabetologi, grandi analisti della mente come Ronald D. Laing, il migliore nel mondo anglosassone.

E se volesse chiarire a se stesso chi sia Bevilacqua?
Chi è Alberto Bevilacqua? Per me un peso, per gli altri non lo so.

L’immagine: Alberto Bevilacqua intervistato da Dora Anna Rocca.

Dora Anna Rocca

(LucidaMente, anno III, n. 12 EXTRA, 15 luglio 2008, supplemento al n. 31 dell’1 luglio 2008)
Religione e scienza:
nessun contrasto
Antonino Zichichi:
«la scienza moderna
è nata da un atto
di fede in Dio»
L’intervista che segue, della nostra redattrice Dora Anna Rocca, al celebre fisico nucleare, è stata già pubblicata sulla Gazzetta del Sud del 24 gennaio 2008, ma in forma leggermente diversa. Pertanto, abbiamo il piacere di ospitarla anche sulla nostra rivista telematica, ritenendo di fare cosa gardita ai lettori di LucidaMente.

Cosa pensa un grande fisico dell’esistenza di Dio? Può esistere simbiosi tra fede e scienza? Possono esistere altri universi? La teoria delle stringhe ha validità scientifica? In occasione di un’iniziativa culturale tenutasi a Lamezia Terme, ho avuto il piacere e l’onore di porre queste domande direttamente ad Antonino Zichichi, noto fisico nucleare di fama mondiale e presidente della World Federation of Scientists, che ha risposto, con precisione e puntualità.

Big bang e Genesi come si coniugano?
«Sono due problemi radicalmente diversi. Il Big bang è un fenomeno che si studia nell’ambito della sfera immanentistica della nostra esistenza. La Genesi, il primo libro della Bibbia, ha due componenti: una di natura esclusivamente trascendentale e un’altra, essa pure legata all’aspetto immanentistico dell’esistenza umana. Noi siamo un formidabile esempio di simbiosi tra le due sfere esistenziali. Non dimentichiamo che la scienza è nata, con Galileo Galilei, da un atto di fede nel Creatore di tutte le cose visibili e invisibili. Se Big bang e Genesi fossero in antitesi, sarebbe impossibile conciliare la fede con la scienza. E invece “scienza e fede sono entrambe doni di Dio”, come ha detto Giovanni Paolo II».

Come concilia la discendenza dell’uomo dall’essere a immagine di Dio?
«L’evoluzionismo biologico della specie umana (Ebus) è lungi dall’essere stato capito. Chi dice di conoscere l’origine della specie umana non fa scienza galileiana, ma attività di ricerca che non ha ancora toccato il terzo livello di credibilità scientifica. Fare scienza esige rigore e riproducibilità sperimentale. Credere nell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio non è in conflitto con la scienza. Nessuna scoperta scientifica è in contrasto con l’esistenza di Dio. L’ateismo non è un atto di ragione, ma un atto di fede nel nulla. Per dare a Ebus il livello di credibilità scientifica galileiana è necessario spiegare due passaggi cruciali. Il primo: come dalla materia inerte sia venuta fuori la materia vivente, vegetale e animale. Il secondo: come dalla materia vivente e priva di ragione sia venuta fuori quella forma di materia vivente cui noi apparteniamo e che è l’unica ad avere lo straordinario privilegio di avere scoperto la memoria collettiva permanente, meglio nota come linguaggio scritto, la logica rigorosa di cui è esempio la matematica; e la scienza, che, tra tutte le logiche possibili, è quella scelta dal Creatore per fare l’Universo, inclusi noi stessi. Le grandi conquiste dell’intelletto umano sono la prova che siamo depositari unici del dono della ragione. Questo dono, l’evoluzionismo, che pretende di avere capito tutto, non lo sa spiegare. Ecco perché la discendenza dell’uomo dalle scimmie non è scienza galileiana».

Come procedono i suoi studi sull’antimateria?
«L’antimateria nucleare l’ho scoperta nel 1965. Da allora, è stata confermata in molti esperimenti. Sulla sua esistenza non ci sono dubbi: ecco perché non me ne occupo più. Per progredire nella scienza, risolto un problema, bisogna affrontarne altri. È quello che ho fatto nella mia lunga carriera scientifica».

Potrebbero esistere universi paralleli?
«Gli universi paralleli nascono dalle teorie dette delle “stringhe”. Teorie che fino a oggi non hanno avuto alcuna verifica sperimentale. Ho molti amici che lavorano su queste nuove frontiere».

Cosa le interessa attualmente?
«L’esistenza del Supermondo e in particolar modo capire com’era l’Universo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big-Bang».

L’immagine: Antonino Zichichi al Teatro Umberto di Lamezia Terme.

Dora Anna Rocca

(LucidaMente, anno III, n. 34, ottobre 2008)

Intervista a Nedo Fiano

Dora Anna Rocca

La storia non può essere dimenticata, i crimini commessi dai nazisti non dovranno ripetersi mai più. Delitti disumani, di un'atrocità indescrivibile per i quali non è concepibile il perdono per chi ha vissuto direttamente una storia che supera ogni possibile immaginazione.

 Nedo Fiano oggi ha 77 anni, ma ne aveva soltanto 18 quando fu arrestato e deportato con tutta la famiglia ad Auschwitz- Birkenau. La sua è una vicenda molto cruenta, che ha ispirato anche una delle più belle opere del regista-attore Roberto Benigni.
Le sue risposte dalla sua casa di Milano sono quelle di un uomo che ha vissuto al confine tra la vita e la morte, tra situazioni di dolore che ne hanno segnato indelebilmente l'esistenza.
Dottor Fiano, può descrivere quello che accadeva nel campo di sterminio dov'è stato? «Ho vissuto all'interno della paurosa struttura di violenza e di minaccia, in un mondo fuori dalle coordinate della nostra vita. Noi eravamo nelle loro mani senza più un diritto, senza una famiglia, una casa. Senza il nostro letto, i nostri cibi, la nostra tavola apparecchiata. Senza indumenti. Senza bagni né medicine. Eravamo orfani, avevamo perduto tutti gli affetti. Siamo scampati a qualcosa di delittuoso, prodotto dall'uomo».
Lei fu liberato dalle truppe americane dal lager di Buchenwald dov'era stato trasferito alla fine della guerra dai nazisti in fuga. Possono esserci secondo lei dei motivi legati alla sua sopravvivenza? «Potrebbero essere molteplici, forse la conoscenza della lingua tedesca, o l'essere ancora giovane, forte, quando avvengono calamità naturali si cerca di risalirne alla causa, di conoscerne gli effetti. Da quell'inferno se ne esce per una serie di vicende miracolose».
Nel miracoloso lei vede l'intervento divino?
«Mia madre è stata bruciata. Mia nonna aveva novant'anni quando è stata uccisa. Mio zio, mia zia con i due figli, sono tutti morti. Un milione e mezzo di bambini sono morti. Iddio Onnipotente non c'entra. Non posso dare a Dio quel potere per poi insultarlo. Dio ha creato il mondo, l'uomo, questo è il grande miracolo. L'uomo poi può scegliere il bene o il male». 
Si identifica completamente con la storia del ragazzo de "La vita è bella" di Benigni che si rifà alla sua vita?   «È stata una favola per bambini. Le favole non sono su un terreno realistico. La storia vissuta è tutta un'altra cosa».

Perchè dice così? «I bimbi non possono capire un certo realismo della vita, quelli che sono andati a vedere "The Shindler list" non potevano capire nulla, non sono ancora maturi, e Benigni ha operato in modo da far capire loro il significato di "Shoa", ma non si può chiedere del realismo alle favole, perchè vogliono solo suscitare sentimenti, commozione».
Cosa ne pensa del perdono chiesto dal giovane soldato tedesco morente all'ebreo Simon Wiesenthal, che non lo concesse?
«Non può esistere alcuna forma di perdono per quegli atti criminosi. Tante volte mi è stato chiesto di perdonare. Immaginate i nazisti che bruciano davanti ai vostri occhi la persona più cara che avete. Li perdonereste?».                                                        Quindi nessun perdono?
«No, perchè il loro sogno sarebbe di ripetere quell'esperienza. Sono totalmente contrario al perdono. Si può perdonare il popolo tedesco, ma non i crimini commessi. La colpa collettiva è un grave reato. I nazisti hanno fatto fuori sei milioni di esseri umani in cinque campi di sterminio. Hanno bruciato persone, giorno e notte. I tedeschi erano carnefici: oltre a ebrei, zingari, omosessuali, hanno fatto fuori anche venti milioni di prigionieri russi, di questi ne sono tornati a casa otto. Non si può concedere alcun perdono a persone avvelenate da un satanico furore. Io prego che non sia nemmeno avanzata la proposta del perdono di questi crimini, è un delitto solo pensarlo».
Lei ha incubi notturni? Se gradisce può anche non rispondere. «Le risponderò, no io ho incubi diurni. Veda ci sono delitti che sono fuori dall'umano, non si possono dimenticare gli esseri umani ridotti in ceneri, rovesciate di proposito come cibo per i pesci».
Quale percezione avevate della situazione in cui vi trovavate tutti voi deportati nel campo di concentramento?
«Eravamo come un branco di leoni al circo con il loro domatore. Leoni che non possono più mordere l'uomo che li tiene in schiavitù».
Gazzetta del Sud 21/2/2007

 

Nedo Fiano al Capitol racconta l'inferno                         Dora Anna Rocca
Nedo Fiano, ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, al secondo appuntamento del "Sabato del villaggio", evento organizzato dall'associazione Koinè e patrocinato dal Comune, ha ricordato la drammaticità degli eventi che l'hanno visto protagonista di vicende atroci tali da sembrare storie d'altri tempi, d'epoca medioevale, quando si bruciavano streghe ed eretici.
La sala del cinema Capitol era gremita di persone: anziani, giovani e bambini, questi ultimi seduti sulla moquette per poter ascoltare con le proprie orecchie pagine di storia che restano indelebili nell'anima di chi le ha vissute. Mentre si racconta Nedo Fiano piange, e la platea si commuove per le sue parole.
L'accompagna la moglie Rirì Lattes, ebrea di 77 anni, cinque anni in meno del marito, rimasta nascosta in un appartamento di Firenze con la famiglia, mentre lui veniva deportato nei campi di sterminio.                                 «Mio marito è un uomo meraviglioso», afferma, «e nel 1945, dopo il rientro dalla guerra, si mise subito a lavorare, l'unico suo riferimento familiare erano dei cugini. Ci siamo sposati quindici giorni dopo la mia maturità. Oggi abbiamo tre figli e viviamo a Milano dove lui lavora come consulente d'azienda».
Il sopravvissuto a quella immane tragedia mostra il numero di matricola inciso a fuoco sul braccio ed una divisa a righe utilizzata dai prigionieri, non la sua, perché lui andava in giro seminudo.                                                             Poi ricorda a voce alta contando in tedesco, nell'assoluto silenzio, le bastonate a sangue inflitte dai carnefici nei glutei ai prigionieri, costretti a contare in lingua tedesca ogni colpo ricevuto, ed in caso di errore la conta riprendeva da zero.
Gli uomini che sopravvivevano l'indomani dovevano lavorare comunque. Ricorda ancora la crudeltà dei dobermann e dei pastori tedeschi addestrati per saltare addosso ai prigionieri, dilaniarne i genitali e leccarne il sangue mentre morivano. O quella delle impiccagioni, almeno un paio la settimana, o della morte dei prigionieri a causa della fame. Ma di tutte, l'esperienza più dolorosa è legata al ricordo della madre, morta nel forno crematorio.
Il sopravvissuto la rappresenta come una donna dal carattere forte che dopo venticinque anni di duro lavoro era riuscita a creare una pensioncina con sei-sette camere, che fu costretta a chiudere con la promulgazione delle leggi razziali del novembre '38. Spiega Nedo Fiano: «Durante il viaggio verso il campo di sterminio mia madre non era più estroversa, come al solito, aveva percepito il male che stava per sopraggiungere». Ne descrive poi la morte, in quei luoghi nei quali veniva detto agli ebrei che avrebbero potuto fare la doccia. «È stata accompagnata insieme ad un centinaio di persone al forno crematorio numero 2», racconta il figlio, e dopo un periodo d'attesa l'hanno fatta entrare in una sala sulle cui pareti c'erano dei ganci con numeri progressivi, per appendere gli indumenti; qui si lasciavano le scarpe e si passava nella sala docce. Si chiudevano le porte e si spegnevano le luci. Quando la temperatura raggiungeva i 28° venivano introdotti nelle canaline granuli di silicio che a quella gradazione si trasformavano in gas cianidrico provocante la morte per asfissia in cinque minuti. Non so cosa avrà pensato mia madre in quei cinque minuti. Poi i corpi venivano bruciati nel forno crematorio e le ceneri giornalmente prelevate venivano rovesciate o nell'acqua della Vistola o di un suo affluente, come cibo per i pesci. Così è morta mia madre. Auschwitz aveva l'odore di carne umana bruciata».
Mentre Fiano parla, la moglie confida: «Mio marito non può più sopportare la carne cotta al forno, né l'odore della cenere». E intanto è evidente lo sgomento che il racconto suscita in sala.
Durante la serata il lettore Giancarlo Davoli ha letto alcune citazioni di Fiano e Primo Levi. Malgrado molta gente sia rimasta in piedi, una poltroncina in prima fila, di fronte al sopravvissuto è rimasta vuota quella riservata al sindaco Gianni Speranza, non perchè non fosse presente, anzi, ma dopo l'affermazione fatta inizialmente dal sopravvissuto ad Auschwitz: «quella poltrona è inspiegabilmente vuota, quello è il posto di mamma», Speranza ha preferito rimanere in piedi dimostrando una sensibilità notevole per una storia che va oltre ogni immaginazione.
Alla fine il sindaco, con l'assessore alla Cultura Giovanna De Sensi, saluta il protagonista della serata esprimendogli solidarietà e ringraziamenti per aver pur nella sofferenza raccontato la sua storia alla città. Per non dimenticare.
Il racconto
«Ecco il mio numero di matricola inciso a fuoco sul braccio ad Auschwitz. C'era una divisa a righe verticali che utilizzavano i prigionieri ebrei, ma io andavo in giro seminudo, contando in tedesco le frustate che davano i tedeschi».
«Durante il viaggio verso il campo di sterminio mia madre non era più estroversa come al solito, aveva percepito il male che stava per sopraggiungere».
«I prigionieri venivano portati nella sala docce. Gli ordinavano di spogliarsi. Ad un certo punto si chiudevano le porte e si spegnevano le luci. Quando la temperatura raggiungeva i 28 gradi, venivano introdotti nelle canaline granuli di silicio che a quella gradazione evaporavano e si trasformavano in gas cianidrico che provocava la morte per asfissia in cinque minuti».

Gazzetta del Sud 27/2/2007

Intervista ad Agnese Moro

Dora Anna Rocca

L'agguato ad Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana rapito a Roma in via Fani, nel marzo del 1978, lasciò tutto il mondo senza fiato. Il sequestro avvenne mentre stava andando in parlamento con la scorta per partecipare al dibattito sulla fiducia dell'ennesimo governo Andreotti, costituito con l'appoggio e l'ingresso del Partito comunista italiano nella maggioranza. Per realizzare cioè il cosiddetto "compromesso storico".
Paolo VI, amico di Aldo Moro scrisse: «Uomini delle Brigate rosse, restituite alla famiglia Aldo Moro». Appello che non ricevette ascolto. Dopo 55 giorni di prigionia, il cadavere dello statista fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault R4 rossa.
La figlia di Moro, Agnese, il 28 sarà in città per partecipare al "Sabato del villaggio" con l'ex segretario della Dc Mino Martinazzoli. Alle 18 nel Teatro Grandinetti ci sarà anche il governatore Agazio Loiero. Alla Gazzetta del Sud Agnese Moro racconta le sue sensazioni alla vigilia dell'appuntamento.
È già stata in Calabria?
«Sì, mia nonna paterna era di Cosenza. Faceva la maestra, è morta nel 1939, non l'ho mai conosciuta, ma veniva ricordata in famiglia come una persona eccezionale. Per me la Calabria è bellissima e rappresenta qualcosa di importante».
Suo padre nel 1963 costituì il primo governo con il Psi fondando l'idea del centrosinistra. L'obiettivo era indebolire il Pci costringendolo all'isolamento per allargare la base democratica. Eppure nel 1976 ne accettò l'appoggio parlamentare. Quale il motivo di questa decisione, e c'è nesso tra questa scelta e l'agguato di cui fu vittima delle Brigate rosse due anni dopo?
«Certamente lui era in una posizione esposta, cercava di allargare la base della democrazia in Italia facendo entrare nel governo più persone anche di diverso ceto sociale. Era impegnato in tal senso anche nei confronti del Partito comunista. Lui diceva sempre "due vincitori alle elezioni comportano un problema". Era esposto, ma garantiva lui con la sua persona».
Voi componenti della famiglia quali idee avete sul mandante dell'omicidio?
«Ci sono delle idee ma preferirei non parlarne. Per me quello che è importante che la gente sappia è che lui si era impegnato in prima persona».
Che età aveva lei nel 1978 e chi l'ha aiutata a superare quel tragico periodo della sua vita?
«Avevo venticinque anni. Mi hanno aiutata gli amici, ma soprattutto la fede. Ho sempre sentito la vicinanza di Dio anche in quel momento».
Aldo Moro era in buoni rapporti sia con Papa Giovanni XXIII che con il suo successore Paolo VI, è vero?
«Erano amici con mio padre. In quel momento burrascoso un allargamento al Partito socialista aveva creato perplessità. Papa Giovanni XXIII ebbe un ruolo importante, quello di incoraggiare questa autonoma iniziativa».
Ci indica quali le peculiarità caratteriali di suo padre che vuole che la gente ricordi?
«Era una persona super impegnata, ma che amava riposarsi in modo semplice: raccogliendo frutta in campagna o con una nuotata a mare. Lui è stato oltre che uomo politico, un professore universitario. Amava anche scrivere, leggere, stare con noi della famiglia».
Con gli altri come si poneva?
«Era caratterialmente gentile, mai aggressivo e non portava mai i suoi problemi a casa. Sempre ironico, ha cercato di dare il meglio di sé nella politica e nella sua vita privata».
Lei è sociopsicologa, impegnata nell'Accademia di studi storici "Aldo Moro". Cosa ne pensa della politica attuale?
«È alla ricerca di nuovi equilibri, sarà molto interessante seguirne l'evoluzione».

Gazzetta del Sud 26/4/2007

Intervista ad Ernesto Galli della Loggia

Dora Anna Rocca (tratto da Gazzetta del Sud)


La globalizzazione porterà inesorabilmente all'accentramento dei controlli. È solo questione di tempi. Bisognerà organizzarsi di conseguenza.
Ne abbiamo parlato con Ernesto Galli della Loggia, uno dei massimi storici dell'età contemporanea, che sarà ospite del prossimo "Sabato del Villaggio" in programma fra quattro giorni alle 18 al Teatro Umberto. Nato a Roma 65 anni fa, dopo essersi laureato in scienze politiche, ha proseguito i suoi studi all'estero ed ha prestato attività come docente e nei centri direzionali di alcune università italiane. Ora è preside alla facoltà di filosofia dell'Università "San Raffaele" di Milano ed editorialista del "Corriere della Sera".
Si trovava in Romania quando ha risposto alle domande della Gazzetta del Sud.
Nel suo percorso formativo ritiene ci sia stata una persona che abbia inciso particolarmente sulla sua formazione culturale?
«Sì, un giovane docente, assistente universitario ordinario: Giampaolo Nitti, nipote di Francesco Saverio Nitti. Ha avuto una grande influenza su di me. Con lui mi sono laureato. Ha rafforzato in me gli interessi storici. C'era tra di noi una differenza d'età di una decina di anni. Eravamo insieme quando a causa di un incidente stradale perse la vita. Il giorno che morì era stato eletto consigliere regionale in Basilicata».
La logica della globalizzazione porterà all'accentramento dei controlli con il conseguente depauperamento delle risorse locali?
«Non porterà al depauperamento nel senso economico, ma culturale. Miliardi di persone oggi stanno meglio grazie alla globalizzazione, pensiamo ai cinesi e agli indiani. Uomini che fino a poco tempo fa stavano male, oggi vivono in condizioni migliori. Il depauperamento sarà culturale, in quanto ci sarà una grande omologazione di tutte le culture a quella occidentale radiotelevisiva».
In Calabria con un emendamento alla Finanziaria sono state ridotte le aziende sanitarie da 11 a 5, cosa ne pensa?
«A prescindere dal caso specifico, la logica della globalizzazione prevede l'accentramento. Sono tuttavia contro il tipo di gestione attuale delle regioni. Il decentramento ha creato una classe di oligarchia locale rapace, incontrollabile. Cerca di aumentare enti ed organismi istituzionali per moltiplicare i contributi a suo favore. Se questa oligarchia fosse lasciata libera ci sarebbero tantissime aziende sanitarie e strutture inefficienti. L'ideale sarebbe obbligare il sistema sanitario regionale ad una rendicontazione meticolosa dei finanziamenti ricevuti. Invece di pensare al numero degli ospedali, bisognerebbe creare le condizioni per renderli efficienti e poterli raggiungere in pochissimo tempo. Basterebbe un buon elicottero e cinquanta metri quadrati per farlo atterrare. Ma non è questo il problema reale».
Lei ora si trova in Romania. Cosa pensa dell'entrata dei paesi dell'Est nell'Unione europea ed in particolare della Turchia?
«I paesi dell'Est sono contenti di essere entrati nell'Unione europea, sono molto poveri. Esiste una differenza marcata rispetto all'Italia. I paesi che sto visitando sono arretrati almeno di una cinquantina di anni rispetto a noi. C'è stato il comunismo che ha lasciato conseguenze negative di tipo economico. Qui c'è ancora come mezzo di trasporto il carro trainato dai cavalli. Dovremo rassegnarci a non vedere più i fondi europei di cui beneficiava l'Italia, perché andranno in qualche modo verso i paesi in cui c'è più bisogno».
Islam e democrazia, connubio possibile?
«Forse la democrazia in Turchia potrà attecchire se prevarrà l'anima laica. La Turchia ha un Islam molto particolare. Religione musulmana ma che ha subìto un trauma laicizzante. Esiste una doppia anima religiosa islamica. L'Iran e la Turchia hanno un'identità nazionale per la storia secolare, in Turchia c'è stato l'impero ottomano, in Iran quello persiano. Gli altri paesi arabi hanno solo un'identità religiosa, qui la democrazia farà molta fatica ad attecchire, anzi sono pessimista in tal senso».
Come pensa si possa evolvere il nuovo assetto politico?
«Non mi interessa. Sono trentacinque anni che mi occupo di politica. Mi sono stancato. Ci vuole una nuova legge elettorale da vent'anni, ma anche la migliore legge elettorale viene poi modificata. Preferisco occuparmi della condizione della scuola in Italia».
Essere editorialista è per lei un lavoro o una passione?
«Passione che è diventata abitudine, ma cerco di far sì che resti passione occupandomi di cose varie e diversificando gli argomenti».


9/5/2007

Intervista a Giuliana LoJodice

Guardare la realtà sotto nuove prospettive. Affrontare la diversità con autorità ed ironia. Questo il messaggio dell’intera vicenda scritta da Ugo Chiti  “Le conversazioni di Anna K.” che si rifà a “La metamorfosi” di Kafka,

uno dei più perfetti ed emblematici racconti del Novecento. Lo spettacolo teatrale, viene rappresentato per la prima volta in Calabria, il 18 e il 19 febbraio 2010 al Politeama. Gregorio Samsa, è il protagonista de“La metamorfosi” di Kafka, colui che destandosi  da sogni inquieti si trovò mutato in un insetto mostruoso.

Nella versione di Chiti, il punto di osservazione si sposta su Anna che, da figura marginale, assume il ruolo di protagonista. A rappresentarla l’abilissima Giuliana Lojodice

Lei oggi a Lamezia interpreterà Anna K

«Teatro Eliseo e quelli dell’Arca azzurra quando hanno saputo che potevo essere io l’interprete di Anna K non credevano che io avrei interpretato questo ruolo di domestica. Erano scettici. Spero che alla fine si sono ricreduti. Mi è valsa l’opportunità di entrare in una persona che ho amato tanto, che continuo ad amare e mi ha dato tantissimi risultati sia scenici che di critica e di pubblico che ama tanto questo spettacolo. Forse, dopo 40 anni vissuti con Aroldo è il primo grande ruolo da protagonista».

Nel 1966 incontra Aroldo Tieri

«Avevo 26 anni. Ringrazio Dio di aver incontrato un uomo come Aroldo. Sono Pugliese vengo da Bari, Aroldo era originario di Corigliano Calabro, e mi diceva sempre “sono un attore particolare, diverso, importante, sono calabrese”. Sto cercando di continuare in Calabria il discorso che lui ha iniziato. Era molto attaccato alla sua terra. Nel 1999-2000 purtroppo iniziò a non stare più bene. Con Aroldo siamo stati sempre curiosi della ricerca letteraria, politica, teatrale. La nostra è stata una attività intensa. Mi sono fermata dal 2003 al 2006 per la sua malattia. Non volevo più riprendere ma poi il teatro mi ha aiutato tanto. Sto lavorando nel settore da 50 anni».

Tra cinematografia, televisione e teatro, quale il settore artistico che l’ha gratificata di più ?

«Mi sento soprattutto attrice di teatro. Il cinema mi ha incuriosito, divertito, ma lì non mi trovo a mio agio. La mia natura teatrale non mi consente distrazione. Il nostro è un lavoro critico, di attenzione, memoria. Necessita silenzio. Nel cinema tutto diventa più importante del protagonista: luci, scenografia, macchine, tutto viene prima di quello che deve dare l’attore. Ho fatto anche fiction, ma sia il cinema che la fiction non mi consentono quanto il teatro: l’interiorizzazione del personaggio».

Nel 1964 ha affiancato Mike Bongiorno nel festival di Sanremo

«Leone Piccioni dirigente Rai mi invitò a condurre trasmissioni di varietà televisivo tra cui nel 1963 "Johnny 7", accanto a Johnny Dorelli. Raggiunsi una popolarità tale che nel 1964 mi chiamarono per affiancare Mike Bongiorno al Festival di Sanremo. Litigai con lui, con me non fu un gentiluomo, ma si ridimensionò nei  miei confronti. Nel 1964 i vestiti che utilizzavamo ce li pagavamo noi, così i parrucchieri. Fu la prima volta che a Sanremo cantavano cantanti stranieri. Conobbi Toni Dallara che si innamorò pazzamente di me. Non interessava, ero incinta della mia prima figlia. Ho avuto un’esperienza magica condensata in tre giorni. Oggi la Rai sfrutta 5 giorni di Palinsesto. All’epoca vinse Cigliola Cinguetti con “Non ho l’età” preferivo però “una lacrima sul viso” di Bobby Solo».

Dora Anna Rocca